Un nome, un destino

Coffee-Break

Coffe Break, i Racconti di NapoliTime 

Quella mattina di fine settembre, come al solito, stavo facendo le pulizie nella mia piccola pensione. Si chiama “La Fiorita” la mia pensioncina, è solo un 2 stelle, ma è pulita e dignitosa. Ha dieci camere e ognuna porta il nome di un fiore ed è mia cura far trovare per ognuna di loro un lieve profumo. La camera Viola quindi profuma di violetta, la camera Rosa profuma di rose, nella Ciclamino sembra di entrare in un bosco odoroso e, grazie anche alla posizione strategica (si trova vicino all’ospedale) il lavoro non mi manca.

Quella mattina, appunto, nella camera Iris, che si trova vicino al portoncino, dovevo solo spolverare perché era già tutto pulito, lenzuola immacolate, lavate con la lisciva (qualcuno se la ricorda?) salviette rigorosamente bianche, perfette. Entro e trovo un asciugamano a terra, mi chino per raccoglierlo e noto delle macchioline tipo di ruggine, lo osservo meglio, meravigliata, e noto che sono fresche, mi guardo intorno e mi par di sentire una specie di mugolio provenire dalla camera adiacente. Titubante mi affaccio e caccio un urlo, anche la “cosa” accovacciata a terra lancia un urlo, impaurita quanto me. Mi avvicino con cautela, la guardo e vedo una ragazzetta sporca e sudata che mugola piano emettendo un verso straziante.

“Chi sei?”. L’apostrofo malamente.
“Sono Ambra e mi sa che mi si sono rotte le acque”.

Mi metto le mani nei capelli. Che vuol dire? Che devo fare? Siccome leggo molto (sono sempre sola, la sera) so che ci vogliono teli, acqua bollita. Dai versi sordi che emette penso che non devo perdere tempo, non c’è tempo per il 118 quindi corro in cucina, faccio cadere tutto ciò che tocco ma alla fine torno di là attrezzata e coi guanti di lattice, lei è ancora accovacciata ma si è tolta i pantaloni (menomale) e io non so che fare. Rimango lì, impalata, a guardare la pozza sotto di lei, un misto di liquido e sangue e ci manca poco che vomito. Mi accuccio anche io, le chiedo se vuol mettersi sul letto (anche se ad essere sincera tremo al pensiero) e lei mi dice che trova sollievo nello stare accucciata. Quindi io mi metto sul pavimento, cercando di aiutarla. Sento che il momento cruciale è vicino, lei spinge con foga e dolore, io cerco di aiutarla, ritmando con lei le contrazioni. Dopo un tempo che mi sembra infinito e che a malapena ricordo, con un urlo disumano, riesce ad espellere una cosa violacea, grinzosa e tutta appiccicosa, la prendo al volo e inizia subito ad urlare come un’ossessa. La mamma piange e io dallo stress piango con loro, ma dopo pochi attimi so che c’è da tagliare il cordone, da espellere anche la placenta. Le piazzo la mostriciattola in grembo e armeggio per portare a termine il primo parto (e spero tanto l’ultimo) della mia vita. Avvolgo la piccola in una copertina di pile, vado al bagno, la lavo con acqua tiepida, lavo anche la mamma, alla meno peggio e le metto a letto. Corro di là, chiamo il mio dottore, un vecchio amico, e lo faccio correre alla Fiorita. Corro a vedere fra le cose dimenticate dai clienti se c’è qualcosa da neonato, trovo l’indispensabile, ritorno in camera, vesto la piccola che ora mi pare meno brutta e corro finalmente a vomitare.

La bimba sta bene, dice il dottore, la mamma pure, mi chiede chi sia, io gli invento una bugia, dico che è una mia parente che non ha fatto in tempo a raggiungere l’ospedale, mi prescrive le medicine e se ne va.

Ora che siamo sole e finalmente relativamente rilassate, le chiedo chi è, da dove viene e cosa pensa di fare. La sua storia è una storia di costanti abusi, perpetrati dallo zio. La ragazza viene dalla Puglia e non ha nessuna intenzione di tornarci perché l’ammazzerebbero di botte e la piccolina è figlia quindi dello zio. Le prendo lo zaino e guardo i suoi documenti. Si chiama Ambra davvero, viene dalla Puglia e, menomale, è maggiorenne.

“Va bene”. Le dico. “Ma cosa hai intenzione di fare, con la piccina?”.
Se non le dispiace, rimarrei un po’ qui, posso dare una mano con le pulizie, sono una lavoratrice, ci pensi…”.

La notte non chiudo occhio, mi giro e mi rigiro. Sono sempre stata sola, mia mamma, che era una ragazza madre (strano il destino) è morta presto lasciandomi alle prese con la vita che non è mai stata simpatica con me. Certo un aiuto, visto che ora sono un’ultraquarantenne, mi potrebbe far comodo. Ricca non sono, ma ci si può stare in tre, eppoi i bambini portano fortuna… Di contro, io a questa Ambra non la conosco per niente e se è una ladra assassina? E anche se non lo fosse (non ne ha l’aria, sembra piuttosto un uccellino spaventato) mi si scombineranno come minimo tutte le mie care abitudini… Alla fine, alle prime luci dell’alba, ho finalmente deciso.

La mattina dopo dico ad Ambra che accetto, che può stare qui con la piccola finché lo vorranno (sarà quel che Dio vuole, le mie abitudini non cambieranno poi molto). Lei mi abbraccia e piange. E piango, di nuovo, anche io.

“Bisognerà andare in Comune a registrarla”. Le dico. “Che nome le dai?”. Chiedo un po’ curiosa.
“Il tuo! Ovvio!”. Risponde raggiante, mentre io cado a sedere sul letto.
“Non puoi, non se ne parla, chiamala Iris, è nata qui nella stanza Iris!. Rispondo convinta.
“Assolutamente no!”. Replica Ambra. “Il tuo nome le porterà fortuna, tu l’hai fatta nascere e ci hai accolte senza riserve”.

E così, ora, alla pensione “la Fiorita” echeggiano le risa della mia piccola adorata, mi farò chiamare zia (non sono pronta a farmi chiamare nonna, in fin dei conti a poco più di quaranta anni siamo ancora giovani, no?)

Ah… dimenticavo, come mi chiamo io? Orsolina, nata il 21 Ottobre, Sant’Orsola, detta Lina. Povera piccola…

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.