Coffee Break, i Racconti di NapoliTime
Le forchette tintinnavano sopra i piatti con un ritmo irregolare e imprevedibile. Talvolta la cresta delle posate veniva infilzata nella braciola, talvolta veniva poggiata solo di lato alla porcellana per avere un attimo di pausa. Nella stanza riecheggiavano parole neutre di un qualsiasi Tg. Era l’ora di cena e la famiglia si era radunata intorno alla tavola dopo una giornata di grandi impegni.
Il padre era seduto a capo tavola. Avido divoratore, era colui che veniva sempre servito per primo. Uomo autoritario e dalla mente sapiente e dotta. Era il dispensatore di consigli, colui al quale rivolgersi ogni volta che qualcosa non andava. “Passami l’acqua”, disse a sua moglie.
La madre, amabile casalinga di una bellezza ormai sfiorita, era silenziosa e minuta. Tendeva a sorridere tanto nell’arco della giornata, di quei sorrisi tristi e indecifrabili. “Certo”, rispose. Afferrò la brocca piena e versò una generosa razione nel bicchiere del proprio uomo. Lui bevve.
La donna prese il piatto da portata in cui era rimasto ancora del polpettone – questa immensa unione di carni diverse scelte e amalgamate con amore dalle mani esperte della donna con uovo, pane, aglio, prezzemolo, sale e parmigiano. Lo porse alla figlia. “Marta, prendine ancora.”
“Mamma, sono piena.”
“Dai, su. Domani devi lavorare.”
Marta, rassegnata, prese un altro pezzo di polpettone. Stava ingrassando, lo sapeva bene.
D’un tratto, la famiglia ricadde nel silenzio più assoluto e si voltarono tutti a guardare la Tv – quella scatoletta di plastica e metallo addossata ad un lato della cucina. La notizia che attirò l’attenzione dei presenti, fu un ennesimo caso di stupro.
Marta sospirò: “Ma cosa sta succedendo a questo mondo?”
La madre: “Non capisco.”
Il padre sentenziò: “Lo vuoi sapere cosa sta succedendo, cara figlia? Lo volete sapere? Tutte troie quelle che vengono stuprate. Tutte troie. Lo sappiamo tutti, no? L’uomo è un cacciatore. Se me la metti sotto al naso e poi dici di no quando ormai siamo a metà dell’opera, è normale che uno rimane confuso, no? Tutte vittime questi poveri uomini. Vittime di donne capricciose.”
La madre: “Oh, dai, non dire così…”
Il padre: “Certo che dico così! Certo! Ma sai a lavoro quante ragazze vengono in ufficio da me con le tette sulla scrivania a chiedermi un lavoro? Zoccole, tutte zoccole.”
Marta: “In effetti, dai, mamma. Io non ci credo che esistano davvero questi stupratori terribili. Dovremmo chiuderci tutti in casa. Sono le donne che provocano. Io vedo delle ragazzette che vanno in giro nude. E’ normale che possano venire certi pensieri. E poi basta dire di no. Se dici di no, nessuno ti da fastidio.”
Il padre: “Brava, vedi? Brava. Io non ho mai visto mia figlia andare in giro nuda o in malo modo. Meno male esistono donne come te.”
Marta: “Grazie, papà.”
Marta aveva 26 anni ed era bella. Di quella bellezza che si fa fatica a dimenticare, di quella bellezza che ti inebria e ti rapisce. Capelli biondo miele di un riccio-mosso indefinito, occhi grandi e verdi, labbra rosa e pelle candida, un corpo non perfetto ma equilibrato, quando camminava per strada era impossibile non notarla. Non si truccava mai e quando lo faceva sembrava sempre che avesse il viso pulito.
Nella fabbrica dove lavorava era molto corteggiata, eccome se lo era, eppure sembrava non interessarle nessuno di quei ragazzacci dalle mani grosse e dalle spalle incurvate. Sognava ancora di incontrare il suo uomo perfetto, in giacca e cravatta, un po’ il Christian Grey di “50 sfumature di grigio”. Sapeva che un giorno lo avrebbe incontrato e a quel punto non le rimaneva altro che lasciare questo lavoro tanto duro e andarsene in giro col proprio principe azzurro, che le avrebbe regalato vestiti, gioielli…
“Smettila di sognare, Marta, una volta per tutte.” sentenziò una sua collega di lavoro.
“Ma che c’è di male. Io sono una donna d’altri tempi. Credo che potrò rendere felice un uomo, ma intanto lo voglio come dico io.”
“Come lo vuoi tu… Tu lo vuoi ricco, altroché! Il povero Simone sta ancora piangendo per come lo hai rifiutato.”
“Ah, Simone… Dai, quell’uomo è strano. Ma sai che sta ore e ore a guardarmi mentre lavoro?”
“Sì, lo so. E tu che fai? Gli sorridi.”
“Mi mette in imbarazzo. Ma che dovrei fare?”
“Lasciarlo perdere. Non mi fido di lui. Ha qualcosa di losco.”
Marta scoppiò a ridere. “Torniamo a lavoro. La pausa è finita.”
Marta prendeva l’autobus per tornare a casa. Uscita dalla fabbrica doveva camminare per un chilometro buono e raggiungere la fermata del bus. Era una strada isolata, che faceva sempre da sola. Quella sera faceva particolarmente freddo. Si alzò il cappuccio e si diresse a passi svelti a destinazione. Dopo poco sentì dei passi che si avvicinavano verso di lei, erano lenti e pesanti. Si voltò di scattò e fece un sospiro di sollievo.
“Simone, mi hai spaventata.”
“Scusami, davvero. Non era mia intenzione. Come stai?”
“Bene, bene. Oddio, mi hai fatto davvero prendere un colpo!”
Simone si scusò ancora e i due presero a ridere insieme.
“Che ci fai qui? Non ti ho mai visto prendere l’autobus.”
“Mia zia sta dalle tue parti. Sto andando a trovarla.”
“Come fai a sapere dove abito?”
In quel momento arrivò l’autobus. “Oh,” fece Simone. “Ecco l’autobus.”
Marta salì, dimenticando le parole del ragazzo. Era stremata per il lavoro, infreddolita e non vedeva l’ora di tornarsene a casa e mangiare qualcosa di buono che la madre le aveva cucinato. Prese posto sul mezzo di trasporto, dove c’era solo qualche persona di colore e il conducente stava canticchiando qualche canzone alla radio. Simone rimase in piedi accanto a lei.
“Siediti, Simone.”
“No, no. Preferisco stare in piedi.”
La ragazza cominciò a sentirsi strana. Non aveva mai sofferto di claustrofobia, non aveva mai avuto problemi a stare nei luoghi chiusi, eppure cominciò a sentire del formicolio leggero al corpo e lo stomaco si strinse in una morsa. Forse era dovuto allo sbalzo termico: nel pullman faceva parecchio caldo. Sì, doveva essere semplicemente questo.
“Ti va di venire una volta a cena con me?”
“Cosa?” Fu colta alla sprovvista.
“Ti va di venire a cena con me? Anche stasera. Andiamo in un bel posto e…”
“Mi dispiace, Simone, ma mi stanno aspettando a casa.”
“Anche domani.”
“No, neanche domani.”
Simone rimase in silenzio, a guardarla. “Perché continui a rifiutare tutti i miei inviti?”
“Perché non mi interessano.”
Silenzio.
“Ma hai accettato i fiori a San Valentino.”
“Ti ho ringraziato. Volevo essere gentile.”
“Ma mi sorridi spesso…”
“Simone, aspetta. Io non ti sorrido. Tu mi fissi tutto il giorno e io sorrido per imbarazzo. E poi non significa niente… sorrido a un sacco di persone.”
“Ma tu sorridi a me!”, esclamò Simone.
Marta trasalì. Ora cominciava davvero a sentirsi a disagio. Lo stomaco stava ribollendo, si sentiva strana e… “Devo scendere.” Si alzò.
“Dove vai? Siamo ancora lontani da casa tua.”
Rimase pietrificata. “Come fai a sapere dov’è casa mia? Mi segui?”
Simone guardò da un finestrino attentamente. Marta si resse forte a uno dei pali grigi.
Il ragazzo le puntò gli occhi addosso e con calma affermò: “Mancano ancora tre o quattro fermate. A piedi è un bel viaggetto. Io rimarrei. Se vuoi ci facciamo una passeggiata insieme.”
“Simone, no!” Suonò il campanello per prenotare la fermata.
“Giusto per chiacchierare…”
“No!” L’autobus si fermò.
“Ma perché mi stai rifiutando? Tu non mi conosci!” Le porte si aprirono.
“Esatto. Non ti conosco”. Marta scese giù, a grandi passi e velocemente. La strada era deserta. Mancavano quasi due chilometri per arrivare a casa e cominciò a camminare a passi svelti. Dopo cinque minuti, si voltò, senza una ragione, istintivamente. Simone la stava seguendo. “Lasciami stare!” urlò. Camminava il più velocemente possibile, come mai aveva fatto in vita sua. Non le piaceva fare movimento, non le piaceva muoversi in generale. Si maledì in quel momento per la sua lentezza.
Si voltò ancora. La dividevano da quell’ombra nera pochi passi. “Simone, te ne prego! Lasciami stare!”
Lui la prese per i capelli. La strinse a sé. A pochi passi c’era un vicolo buio. Se la trascinò dietro.
Durò un attimo. Un’eternità.
Singhiozzando, con gli occhi annebbiati, Marta prese il cellulare.
“Mamma! Vienimi a prendere ti prego!”
La cosa peggiore che le capitò dopo fu la visita dei medici del pronto soccorso. Le domande dei dottori. La visita della ginecologa. Il lattice in mezzo alle gambe. Ancora domande. Marta pianse, pianse a dirotto. E poi arrivò suo padre.
“Ora mi dici cosa hai fatto.”
“Niente, papà, non ho fatto niente.”
“No, tu mi dici cosa hai combinato. Cosa hai fatto per farlo reagire così? Mi parlavi sempre bene di lui.”
“Papà, io non ho fatto niente!”
La madre l’abbracciò. “Magari ha interpretato male qualche tuo comportamento. Non dovevi accettare quei fiori, Marta. Non avresti dovuto essere gentile.”
“Ecco, ecco, vedi? Hai accettato i fiori! Tu sei fuori di testa!”
“Io non ho fatto niente!”