Lo struscio, le pietanze e i riti religiosi per una Pasqua tutta napoletana, tra sacro e profano
Con la Domenica delle Palme si dà il via alla “Settimana Santa” che fa da ponte alla Pasqua e al Lunedì in albis. Come in tutta Italia, anche a Napoli questi giorni sono scanditi da riti religiosi accompagnati da menù con pietanze precise, ognuna con una propria cadenza.
A Napoli, però, la Pasqua ha anche il significato di festeggiare la primavera. Un tempo, infatti, la domenica pasquale era l’occasione per mostrarsi in nuovi abiti, cuciti con sapienza e maestria. Gli uomini portavano la paglietta e il bastoncino, la giacca sbottonata per mostrare il panciotto e la bellissima catena d’oro ad arco dell’orologio, tra un taschino e l’altro. Le donne vestivano con abiti lunghi di seta pura. Lo sfoggio aveva luogo il giovedì santo, giorno dedicato ai Sepolcri. Era usanza, infatti, entrare in sette chiese e recitarvi il Gloria, l’Ave Maria e il Pater per chiedere benevolenza al Signore. Il giro delle sette chiese iniziava di buon mattino. I giovani, nei loro abiti nuovi di zecca, lasciavano per ultima meta la chiesa di San Francesco di Paola e, passeggiando per via Toledo in direzione di piazza del Plebiscito, si sentivano i fruscii delle lunghe gonne che urtavano sul marciapiede. Da questo il modo di dire “Vai a fare ‘o struscio?” e l’appellativo “Lo struscio dei Sepolcri”.
Il Venerdì Santo, invece, aveva luogo la processione. Dopo l’omelia della passione e morte di Gesù, con la statua del Cristo morto, seguita dalla statua dell’Addolorata, si faceva il giro del quartiere in processione solenne. Si restava in uno stato di lutto fino al mezzogiorno del sabato, durante il quale, all’udire il suono delle campane, si dichiarava “sciolta la Gloria“, per poi assistere la sera alla benedizione del fuoco e dell’acqua che poi, in fila ordinata, ogni fedele prende in una bottiglietta per la benedizione della tavola del giorno successivo, dedicato al palato.
Dal mercoledì, giorno della preparazione dei taralli di Pasqua, si inziava a formare quello che poi sarebbe stato presentato sul banchetto pasquale: la pastiera, il casatiello, la ricotta salata di Montella, valanghe di uova sode, i carciofi bolliti intinti nell’olio e sale, l’agnello con uova e piselli (chiamato “beneditto”), la “fellata”, il brodo di gallina. Gli avanzi servivano poi per la gita di Pasquetta.
Nella sostanza, la Pasqua partenopea non è cambiata di molto. Le usanze culinarie sono rimaste intatte e in alcuni quartieri del centro si può ancora assistere a processioni solenni ed intense. Lo struscio del giovedì santo è, invece, una tradizione oramai lontana, sebbene via Toledo sia rimasta la passeggiata più frequentata per rimorchiare, non solo a Pasqua.