Lettera alla Redazione: “Quando finalmente un ministro dell’Istruzione si circonderà di tecnici che conoscano la scuola?”
Napoli, 7 luglio – La notizia, lo scalpore, l’indignazione, qualche accenno di smentita, qualche ma no, non si voleva intendere, e tutto che sfuma pian piano tre le chiacchiere sotto gli ombrelloni. Sembra il remake di un film per l’estate visto già tante volte, cambia ogni volta solo il politico-regista.
Con un po’ di anticipo sul ferragosto è arrivata quest’anno la bomba del sottosegretario Reggi: 36 ore settimanali per tutti gli insegnanti, scuole aperte fino a sera, abolizione delle graduatorie di istituto. Queste le prime indiscrezioni circolate sul decreto previsto per il 15 luglio.
Di primo acchito, da un’analisi dettata dal nervosismo “a caldo” che la notizia suscita, è venuto da chiedersi quando finalmente un ministro dell’Istruzione si circonderà di tecnici che conoscano la scuola, il suo lavoro e i suoi problemi. Abbiamo perso la voce a furia di urlare che 18 o 24 ore nella scuola italiana non le fa davvero nessuno, che si continuano a conteggiare le attività di didattica in aula, tralasciando l’obbligatorio e oneroso (in termini di impegno e monte ore) lavoro di studio, aggiornamento, preparazione delle lezioni, preparazione e correzione degli elaborati scritti, attività per la valutazione. Agli insegnanti italiani piacerebbe forse svolgere queste attività in biblioteche o comodi studi, forniti di libri e riviste, attrezzati di materiali didattici, computer e stampanti, come quelli in cui lavorano i più fortunati colleghi delle tanto invocate scuole europee; il loro lavoro sarebbe facilitato, ma soprattutto visibile, rispettato e… pagato!
Di primo acchito abbiamo reagito tutti così, indignati e arrabbiati. Poi qualcuno ha cominciato a chiedersi: possibile che nella stanza dei bottoni non si conoscano bene queste cose? Possibile che non si sappia quanto il lavoro in aula sia fonte di burnout? Che non si non sia nota la contraddizione di un lavoro obbligatorio per contratto e al tempo stesso sommerso, non riconosciuto e non pagato? Che non si sappia che in tantissime scuole italiane si lavora tanto e bene nonostante il degrado e lo sfascio? Che non sia mai arrivata notizia di aule fatiscenti, impianti inadeguati o a rischio, aule dove il clima polare si alterna a quello monsonico e le attività pomeridiane sono state da tempo ridotte o abolite per i tagli al personale e cioè per la banale impossibilità di vigilanza e pulizia dei locali?
Non sono ancora stati informati che già da tempo quelle graduatorie di istituto servono a poco, visto che – salvo in caso di grave e lunga malattia del docente titolare – gli alunni vengono ogni giorno “divisi” tra le altri classi, neanche parallele, cioè parcheggiati in custodia, con evidente danno per il diritto allo studio? E che la scuola secondaria superiore ha già la “chiusura aziendale” tra fine luglio e fine agosto, poiché il mese di luglio si divide tra esami di stato, corsi di recupero e scrutini degli alunni con sospensione del giudizio? Anche il continuo riferimento al funzionamento della scuola in Europa non può davvero scaturire dalla grossolana ignoranza di quelli che sono gli orari, le strutture, l’offerta formativa e gli stipendi del personale nella maggior parte dei paesi europei!
Allora non si può non chiedersi: perché? Perché una volta di più di fronte a un edificio precario e problematico come il sistema scuola nel nostro paese, si sente il bisogno di partire dalla ristrutturazione del lavoro dei docenti, da quello che è forse uno dei suoi punti di forza, beninteso, non per valorizzarlo e supportarlo, ma di fatto per screditarlo e mortificarlo. E bisognerebbe aggiungere che una volta di più non si mette minimamente in discussione l’altra “ala”, di sicuro non più solida ed efficiente, dell’edificio del sistema formativo che è l’Università.
Viene il sospetto che si tratti di un’operazione di stampo demagogico.
Del lavoro della scuola, dei suoi problemi e delle sue contraddizioni fuori della scuola si sa davvero poco; spesso gli stessi genitori affrontano esclusivamente i problemi dal punto di vista di utenti.
Mentre sono duri a morire nell’immaginario collettivo i luoghi comuni che negli ultimi cinquant’anni hanno sostituito l’aura di rispetto che accompagnava un tempo la figura del professore. Diciotto ore, tre mesi di vacanza all’anno, il lavoro ideale per una donna che ha famiglia e per un professionista che voglia fare un’altra attività; c’è ancora chi ci crede e parla degli insegnanti con disprezzo. In questo momento di crisi poi, di licenziati, cassintegrati, salari da fame e condizioni precarie cresce la rabbia verso i privilegiati garantiti, ancor più se fannulloni.
Sinceramente la boutade d’estate del nostro Ministero sembra voler strizzare più l’occhio a questo sentire comune che mettere in atto una riforma fattibile e sensata. D’altra parte non sarebbe la prima volta; un po’ di anni fa si passò l’estate a discutere la destinazione d’uso dei docenti in soprannumero, destinati a capitanerie di porto o uffici catastali, secondo la disciplina di competenza.
Forse è fantapolitica o solo il risentimento un po’ paranoico di una categoria che da troppo tempo si sente poco considerata e svalutata, nel suo lavoro e nella sua dignità.
C’è un solo modo per gli insegnanti di affrontare la questione, senza vittimismi o pericolose derive verso forme di apatia e qualunquismo; il modo giusto è alzare la testa, far sentire la propria voce, far conoscere il proprio lavoro e le sue difficoltà, essere presenti, critici e propositivi nell’incontro o nello scontro, quando è necessario, con le istituzioni. Ma soprattutto si tratta di riaprire il dialogo con il tessuto sociale che sta intorno alla scuola, a partire dalle famiglie. Perché al di là di ogni facile retorica la scuola è ancora il luogo dove si gioca il benessere, la crescita, il futuro delle giovani generazioni, dove si gioca il futuro della democrazia. E non si può consentire a nessuno di renderla merce di scambio per qualsivoglia disegno.
Paola Parlato