Roberto Saviano lo definisce il “vecchio leone” e di lui esalta “la schiettezza, il rigore, la passione e l’umanità”
Francesco Rosi, il padre di “Le mani sulla città”, lascia con dolore il mondo del cinema. È morto a Roma, nella sua casa – studio a Via Gregoriana, all’età di 92 anni. Con lui per l’ultimo saluto la figlia Carolina, attrice, e i suoi più cari amici, i suoi colleghi Marco Tullio Giordano, Roberto Andò e Giuseppe Tornatore, il suo “discepolo”. Una cerimonia civile lunedì a Roma, alla Casa del Cinema, per il suo ultimo ricordo.
Si spegne cosi, nel silenzio, dopo una lunga vita dedita al cinema, all’arte di rappresentare sullo schermo la vita, di “farla rivivere”, come diceva lui stesso. Un uomo appassionato, che ha voluto legare il cinema alla denuncia sociale, alla ricerca della verità, ponendosi come spartiacque tra il cinema della finzione e il cinema-documento. È lui, Francesco Rosi, colui che ha aperto la strada ai film-inchiesta, schierandosi contro la criminalità e la corruzione fin dai suoi esordi nel 1959 con “La Sfida”, un ritratto ambientato a Napoli delle lotte tra i clan camorristici.
Osservava la realtà, ciò che era intorno a lui, con lo sguardo di chi vuole saperne di più, vuole sapere cosa c’è dietro per poi metterlo in scena. “Fare cinema significa contrarre un impegno morale con la propria coscienza e con lo spettatore. – diceva Rosi – Gli si deve l’onestà di una ricerca della verità senza compromessi. Più ci si addentra nel reale e più si ha la coscienza che la certezza del vero e del giusto non esiste. Ma quel che conta è la nitidezza della ricerca”.
E con un’instancabile desiderio di ricerca ha portato sul grande schermo la controversa storia del bandito siciliano Salvatore Giuliano, nell’omonimo film del ’62, la follia della guerra attraverso le barbarie delle trincee italiane nella Prima Guerra Mondiale con “Uomini Contro” (1970). Un film che a suo tempo destò scandalo, fu boicottato, eliminato dai cinema, e che ancora oggi ci invita a riflettere. “Le mani sulla città”, con Rod Steiger uscito nel 1963, è il suo più grande capolavoro, una spettacolare e spregiudicata denuncia della speculazione edilizia a Napoli, con “personaggi e fatti immaginari” ma rappresentati “in un’autentica realtà sociale e ambientale”, come cita la didascalia.
I suoi esordi si legano all’autorevole nome di Luchino Visconti, colui che lo ha avviato alla strada del cinema e per il quale ha curato la sceneggiatura di “Bellissima”. Alla sua infanzia a Napoli, dove è nato e cresciuto, si connette invece l’amicizia con Giorgio Napolitano, insieme al quale si iscrisse al Partito Comunista Italiano. Un altro incontro fondamentale avviene nel 1972, con il grande attore Gian Maria Volonté, protagonista del film “Il caso Mattei”, la storia mai chiarita della scomparsa del dirigente Eni nel ’62.
L’ultimo premio di Rosi è del 2012 durante la Mostra del Cinema di Venezia, un Leone d’oro alla carriera. L’ultimo di una lunga serie che ha visto il regista napoletano vincere la Palma di Cannes per “Il caso Mattei”, il Leone d’oro per “Le mani sulla città” e il David di Donatello per “Cristo si è fermato ad Eboli”, solo per citarne alcuni. Una lunga carriera costellata di successi e che negli ultimi anni, però, aveva definitivamente lasciato le scene.
A Tornatore, amico e allievo con il quale ha scritto nel 2012 il libro “Io lo chiamo Cinematografo”, che gli chiedeva di riprendere in mano la cinepresa, rispondeva: “Il mestiere del regista richiede grande energia fisica e non so se l’avrei più. So invece che in quest’Italia è difficile fare cinema e che la realtà si degrada così in fretta che il suo passo e troppo più frettoloso di quello del cinema. Rischierei di raccontare un paese che già non c’è più”.