Giovani e violenza. Tutta colpa dei videogames?

violent-video-gamesÈ il 14 Dicembre 2012. Un ragazzo di nome Adam Lanza, entra armato di pistola e fucili in una scuola elementare di Newton (Connecticut) cominciando a sparare sulla folla. Muoiono 20 bambini e 7 adulti. Nessuno sa chi sia Lanza ma le prime dichiarazioni lo etichettano come socialmente disturbato, psicologicamente instabile e amante dei videogame di guerra. Uno, in particolare, lo rinchiude in casa per oltre otto ore al giorno. È il celeberrimo “Call of Duty”, sparatutto bellico per eccellenza campione di vendite su praticamente tutte le console note.

Scoppia il pomo della discordia. L’opinione pubblica non si concentra tanto sull’instabilità psicologica del ragazzo, sui disturbi evidenziati anche dai suoi familiari, o piuttosto sul fatto che il giovane avesse avuto la possibilità di armarsi di tutto punto già a soli vent’anni. Agli occhi della stampa, dei mass media, nonché delle persone che ruotano attorno alla vicenda, il fatto che il ragazzo fruisse di un videogame dai contenuti violenti era di per sé l’unica motivazione valida a giustificare l’efferato delitto. Come a dire che, più che vittima di una pulsione profonda, al ragazzo sia bastato emulare quanto già faceva nella quotidianità dei suoi videogame: sparare alla gente.

Non è la prima volta che scoppia una controversia a livello nazionale sul difficile rapporto che esiste tra un videogame ed un caso di violenza. Già diversi anni fa, in Inghilterra, un giovane studente di nome Warren LeBlanc affermò di aver tratto ispirazione da un videogame (Manhunt di Rockstar Games) per uccidere il proprio compagno di classe, Stephan Pakeerah convincendo l’Inghilterra a bandire tanto il gioco quanto il suo sequel.

Diversi sono stati quindi gli studi atti a definire il rapporto che può legare un media allo sviluppo del desiderio di violenza. Neanche a dirlo si è trattato di una serie di buchi nell’acqua, incapaci di trovare un capro espiatorio sensato. La verità è che il desiderio non è dettato dal metodo. La necessità di compiere efferatezze non può trovare giustificazione esclusivamente in uno strumento comunicativo, per quanto esso possa essere partecipativo (come, per l’appunto, un videogioco). Del resto statisticamente, per un videogiocatore che diventa un killer, ce ne sono almeno un altro miliardo che non sente la stessa pulsione, ed è quindi pretenzioso affermare che il mezzo sia di per sé sufficiente a instaurare nelle nostre teste la voglia di uscire di casa per ucciderci a vicenda.

Certo, come ogni media, i videogiochi possono influenzarci in qualche modo, e tali influenze potrebbero anche dimostrarsi uno strumento induttivo, tuttavia dire che un gioco digitale solleciti direttamente lo stimolo alla violenza è quanto meno pretenzioso. Il punto fondamentale è che se un problema esiste non è nel controllo che si può sviluppare a livello nazionale, quanto piuttosto in quello familiare. Il problema, crediamo, è in tutte quelle persone che ricoprono una posizione utile all’educazione e che invece non fanno adeguatamente il loro lavoro. Ogni videogioco (come anche un film) viene messo sotto esamina, onde stabilirne la qualità dei contenuti.

Questo sistema, in Europa chiamato PEGI, stabilisce molto chiaramente quali sono i contenuti riservati ai minori, quali quelli violenti, quali quelli sessualmente espliciti. Provate a controllare tra i giochi che acquistate ai vostri figli e rendetevene conto da soli. I videogame sono un media, e devono essere trattati come tali. Una mente “sana”, come la nostra, come la vostra, non sarà mai vittima di ciò che vede o sente, perché se così fosse basterebbe un qualsiasi telegiornale a renderci tutti dei furiosi assassini.

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